L’artrite reumatoide (AR) è una malattia infiammatoria autoimmune degenerativa che colpisce una persona ogni 200, con progressiva perdita della funzionalità articolare. In Italia sono 300 mila i soggetti che ne soffrono, nella stragrande maggioranza di sesso femminile (75%) nel pieno della vita attiva, con impedimenti concreti nella vita di tutti i giorni: dal lavoro al tempo libero, dalla cura personale alle attività domestiche.
Ma c’è una forma di AR più aggressiva e a rapida evoluzione, peraltro sottovalutata, che peggiora seriamente la qualità di vita dei pazienti con un prezzo altissimo per disabilità e impatto sulla vita di tutti i giorni. A lanciare l’allarme sono i reumatologi e le principali associazioni di pazienti affetti da malattie reumatiche.
«Rispetto ad altre forme di AR - avverte Luigi Sinigaglia, direttore S.C. Reumatologia DH-Asst Gaetano Pini, Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico Pini-CTO di Milano - in quella precoce e aggressiva l’infiammazione della membrana sinoviale che riveste l’interno di tutte le articolazioni mobili del corpo causa un danno precoce ad altri tessuti articolari, soprattutto alla cartilagine e all’osso subcondrale ma anche a tendini e legamenti, con completa abolizione nel giro di un paio di anni della funzionalità del distretto articolare colpito. Una forma di malattia che interessa il 40% dei pazienti all’esordio e si associa a una maggiore disabilità e a una più alta mortalità per manifestazioni extrarticolari. In primo luogo per patologia cardiovascolare che colpisce soprattutto le donne tra i 40 e i 50 anni, con una riduzione della sopravvivenza dai 3 ai 10 anni. Dati che aiutano a comprendere quanto la diagnosi precoce possa cambiare le sorti dei pazienti».
«L’opposto della realtà dove si registrano ritardi di 7, 12 mesi e più tra diagnosi confondenti e pazienti che si curano per mesi con farmaci sintomatici» si lamenta Antonella Celano, presidente dell’Associazione nazionale persone con malattie reumatiche e rare (Apmar). Se da un lato c’è la difficoltà per il malato a decifrare i segnali del corpo e interpretare il dolore e gli altri campanelli d’allarme, dall’altro, c’è la difficoltà per il medico di famiglia ad indirizzarlo tempestivamente al reumatologo. Ma più grave di tutto è la mancanza, in molte aree del paese, di una rete assistenziale efficace e di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali che garantiscano un accesso rapido alla visita specialistica. «Intercettare in tempo la malattia con le cure oggi disponibili - sottolinea Celano - vuol dire non rischiare l’invalidità e poter vivere una vita normale».
Fondamentale quindi è la diagnosi precoce con marcatori specifici che consentano di distinguere all’esordio le forme ad evoluzione più grave e identificare l’approccio terapeutico più appropriato. «Come il fattore reumatoide (RF) e gli anticorpi anti-peptide ciclico citrullinato (ACPA) - spiega il reumatologo milanese - spesso presenti nel siero di pazienti affetti da AR, che associati ad altri fattori prognostici negativi sono in grado di predire la possibilità di rapida progressione della malattia con un’approssimazione dell’80%. Determinante in questi casi è una strategia terapeutica tempestiva: chi inizia una terapia adeguata nei primi 3 mesi dall’esordio mostra una prognosi migliore in termini di danno radiologico e tasso di remissione della malattia».